martedì 17 aprile 2012

Mauro Corona: sono un cialtrone ma... Gli esempi di imbecillità sono un cimitero costato due milioni di lire vuoto e case senza canne fumarie. Un architetto di città non può fare l’architetto di montagna, e il legno tagliato con la luna giusta dura più del cemento

Mi sembra giusto, anzi doveroso,  riportare un'intervista che ho letto sul giornale dell'architettura, a Mauro Corona, un montanaro-scrittore che con i suoi modi rudi porta avanti il suo punto di vista riguardo alla realtà che ci sta travolgendo. Ci potranno essere persone d'accordo o meno su ciò che dice, ma tutti saranno d'accordo sul fatto che questi argomenti fanno riflettere.


Boscaiolo, cavatore, cacciatore, alpinista, scultore, scrittore. Schivo, scontroso,  magnetico, ruvido come le 300 vie di roccia che ha aperto sulle Dolomiti. Mauro Corona si racconta così: «Vengo dagli escrementi della vita, non sono collega di nessuno. Non è che mi reputi uno scrittore; mi aiuto a campare con storie, sculture, scalate. Mi sono messo a scrivere per non spararmi, per non cadere nel baratro. Ho fatto un excursus nella gloria, ora sto per ritirarmi. Non sono un profeta, sono un cialtrone, ma a 62 anni qualcosa la conosco». Erto, paese dov’è nato e vive, è il centro di gravità permanente della sua avventura e anche della nostra conversazione. Nell’ul­timo romanzo La ballata della donna ertana (Mondadori), c’è l’arrivo in paese dei forestieri per costruire una diga, portando finalmente un po’ di be­­nesse­re. Quella diga diventerà una bomba d’acqua distruttiva.
Il Vajont. «Dopo il Vajont hanno tutti fatto finta di essere stati scalzati via come Inca o Aztechi. Non è vero. Io sono stato l’unico ad andare controcorrente. C’era miseria; quando arrivarono per proporre la diga a manovali e artigiani tutti accettarono. Non ci rubarono la terra, gliela demmo noi. Furono accolti da salvatori e la popolazione era servile nei loro confronti, come l’uomo povero fa sempre con i potenti. Abbiamo visto un miraggio, poi abbiamo pagato».

Oggi si continua a discutere del rapporto tra grandi opere e tutela del paesaggio. Qual è la lezione del Vajont?
Il benessere va visto non nel periodo dei cantieri, ma dopo. Ogni territorio richiede interventi consoni. Qui conta l’architettura. Un esempio d’imbecillità cosmica: a Erto, che significa ripido e scosceso, hanno fatto un campo da tennis ora pieno di erbacce e abbandonato. E il cimitero costato due miliardi di lire? Non c’è un morto dentro; la gente vuole andare nel cimitero vecchio. In compenso servirebbe una scuola d’arte e artigianato. Un bel portafrutta di vimini sarà meglio di uno di plastica, no? Io ho attrezzato una palestra di roccia che è famosa in tutto il mondo, vengono dall’America. Senza contributi pubblici, nel 1976.

Manca la cultura del territorio?
Il problema è che cosa ci metti sul territorio: le case, la gente. Venite a vedere Erto nuova, fatta nel 1978, non secoli fa. Un’infamia, una bestemmia turpe di cemento in un paesino dove c’era un equilibrio di prati, alberi e bosco, e tutto degradava dolcemente. Non era il prato che finiva di colpo, sfacciatamente. Si davano il passo pian pianino: prato, cespuglio, albero... Dopo il Vajont potevamo fare delle casettine come in Tirolo, metà di pietra e metà di legno, dove la gente potesse stare bene. La gente ha perso la naturalità, tu li cacci in una cosa che non respira con loro. Un soffocamento di cemento, sbagliato anche tecnicamente. Non hanno fatto le canne fumarie, per cui se finisce il petrolio o una frana blocca il paese per otto giorni non c’è un camino. Questi sono gli architetti che poi scrivono sulle riviste patinate.

E invece come li vorrebbe questi architetti da riviste patinate che non le piacciono?
L’architetto che è nato in montagna sa cosa collocare in quella bellezza (o in quella bruttezza, perché si può mettere una cosa appropriata anche in un luogo ostile). L’architetto di deserto deve progettare nel deserto, invece sono venuti dalle città a fare città in montagna. Una roba orrenda, la gente ci sta male. E poi non è che puoi buttare giù la casa, una volta che l’hai tirata su: quella rimane ai figli, ai nipoti. Tutti costretti a star male. Io sono arrogante: la missione primaria di un uomo sulla terra è non rompere le scatole al suo prossimo, come accade anche costringendolo a stare in un posto come Erto nuova. Mi viene da pensare che abbiano progettato a caso: la chiesa doveva essere una banca, e quella che doveva essere la banca è la chiesa. Tanto è la stessa cosa, no? Come lucro, sì, se non peggio.

Quindi quello che è accaduto a Erto è una dimostrazione di scarsa attenzione alla tutela del paesaggio?
Ora Erto è più grande, ma a fare i paesi non sono le case, è la gente. Come la natura: il mare, i boschi, se non c’è l’uomo che li guarda che senso hanno? Noi cominciamo a perdere l’idea che vada protetto l’uomo, nonostante faccia di tutto per danneggiarsi, perché c’è un rigurgito di ecologia che va a scapito di chi ne fruisce. Una mela da sola non si può gustare, da sola non è nulla: ci vuole un palato. Proteggere la natura è una missione nobile, anche se oggi lo si fa con retorica e falsità.

La retorica dell’ambiente comprende anche la bioarchitettura?
No. Quest’idea mi piace molto perché si usano materiali che sono in simbiosi con l’uomo, per esempio il legno che era scomparso. Ma lo sa che se tagliato in luna giusta dura più del cemento armato? Basta andare in Tirolo o in Val Badia, sui masi alti di San Martino: lì c’è una miriade di casette di 400 anni, fatte di legno di larice diventato rosso e sgraffiato dalle intemperie. Sono sculture. Qualche giorno ho scalato il monte Putia, scendendo ho visto le casette. Il legno, intatto, ha subito solo l’abbronzatura del tempo. Non lo intacchi nemmeno con la motosega. Se tagliato in lune calanti di novembre, le linfe non lavorano più quindi il legno diventa marmo. Poi la dolcezza, l’accoglienza. Impagabili.

A parte il legno?
Il riscaldamento, costruire con una speciale attenzione al comfort. In Val Badia le case di settecento anni fa hanno tutte le finestre doppie.

Ma per lei come dev’essere la casa ideale?
Io vivo di paradossi, ma possono aiutare a riflettere. La casa ideale è quella in cui stando seduto prendi tutto quel che ti serve: il pane, un libro, la bottiglia di vino... Piccola, accogliente. Una casettina vivibilissima, dove l’uomo torna dopo le intemperie della giornata di lavoro e respira. Ecco, la casa anche se di una sola stanza quando entri ti deve abbracciare. Devi sentire un abbraccio. La casa deve avere una dimensione di bisogno di affetto.

Ne vede molte, così?
Nel 95% delle case sento gelo. Amici miei, famosi medici e avvocati, mi invitano a vedere le loro case e me le mostrano orgogliosi, e io sbigottito: sono tombe con questi enormi marmi da cui devi togliere la polvere. Invece lasciala stare, la polvere! Iosif Brodskij la definiva la tintarella dei secoli. Invece in quelle case in Val Badia pensi: qui sto bene. Non si può mica campare sempre angosciati, bisogna rasserenarsi e la casa può essere un nido. Ma se la fai per esibire la tua ricchezza, la tua spocchia... Ti invitano a vedere il loro nulla. Io difficilmente ci vado, perché sento l’odore dei fasulli.

Che cosa la indispone di più?
Tanto per cominciare, quando vedo le piastrelle lucide per terra. Mettete del legno, che dura millenni! E poi chi pensa mai a un piano sollevato? Quando entri in una casa non può stare tutto sullo stesso piano. La scultura insegna che il naso non è sullo stesso piano dello zigomo, e l’orecchio è su un altro ancora. Sfalsa i piani, sempre! Il posto in cui leggo deve essere sollevato, e allora mi sento protetto, perché sullo stesso piano l’anima svilisce. E invece il piano sollevato con una coperta ti eleva, ti isola. Ti dà il gusto dello straniamento.

Qual è la qualità principale di un architetto?
Un architetto non deve solo imparare a fare le cose, ma essere sensibile. A volte sono tecnicamente preparati, ma insensibili. Come per la scultura: provate a fare una maternità. Cento scultori la fanno diversa, e lì vedi chi ha più anima, perché è questione di graffio sulla lavagna dell’anima. Quando crei luoghi dove vive la gente, devi immedesimarti e se hai l’anima gelida farai cose gelide. Se non hai calore non puoi produrlo. Non si scappa.

L’architettura contemporanea è anaffettiva?
Innanzitutto gli architetti sono tanti e confusi, poi cercano l’originalità. Diceva Jorge Luis Borges: non essere originale, è meglio essere immortale. Cerca di essere naturale, perché l’originalità presuppone molte vanità. È giusto che un architetto abbia ambizioni, ma senza esagerare. Tutti vogliono essere archistar. Mi ha colpito l’incarico a Mario Botta per la mostra a Belluno di Andrea Brustolon, il Michelangelo del legno, per certi versi il mio maestro anche se vissuto cinque secoli fa. Io non vedo la necessità d’incaricare un architetto per allestire un posto dove esporre scultura. La scultura basta a se stessa. Per fare colpo sulla gente, Botta ha realizzato uno stendibiancheria, ha teso fili bianchi, una cosa orribile. Ma tutti s’inchinavano «perché è Botta». Non devi inchinarti alla fama. E nessuno che dica: tirateli via quei fili bianchi, fatemi vedere le sculture. Ah, ma doveva rappresentare il cielo... Il cielo a fili?

Un esempio di architettura contemporanea che la convince?
Di Botta mi piace il Mart di Rovereto: dove l’uomo non si monta la testa fa cose belle e utili. E il Parco della musica di Roma, con gli «scarabei» di legno. Però mi chiedo: ha considerato Renzo Piano quando tagliarli quei legni? Non poteva considerarlo, altrimenti ci avrebbe messo cent’anni a costruirli. Il legno ha una notte speciale, canta una sola notte. Perché Stradivari, Guarnieri del Gesù o altri liutai famosi hanno fatto violini che suonano in quel modo? Non è la vernice, perché è stata rifatta uguale invano.  Fior di chimici l’anno scrostata, analizzata e riprodotta: cera, resina, essenze. L’han fatta uguale ma non suona uguale. Quel che conta è la notte in cui si taglia il legno, perché solo il 21 maggio dopo mezzanotte sentirai frullare, come una vibrazione. Tutti i boschi della terra dall’Amazzonia a Erto si mettono a vibrare, come se fosse un passaparola. E quello è il momento di tagliare la pianta. Prova a fare una bacchetta da direttore di orchestra quella notte. L’acustica del Parco della musica è buona, ma se avessero tagliato il legno di una capsula il 21 maggio...

E invece com’è la sua casa?Io sono un barbone legale: sono riuscito a rendere allegro un cubo di cemento, una stanza. Legno dappertutto, un tavolo per scrivere fatto da me con tronchi piallati. Niente vernici a rovinare l’odore, l’effluvio di pino cembro che dura duemila anni. Le zaffate di resine dolcissime. Poi scartoffie. Quando sono stufo faccio rientrare il piano e recupero spazio. Niente binari, sarebbe troppo sofisticato: scorre su due tavole. Ogni trent’anni una passatina di sapone. Poi altre panche, una con una lana d’agnello su cui dormo. Sul duro, e non ho mai mal di schiena. Intorno sculture, figure che mi guardano. Duemila libri in librerie scavate da tronchi con figure femminili. Le sculture-librerie sono personaggi come il generale di Cent’anni di solitudine. Otto metri per otto e lì c’è tutto, compresa una stanzetta con una piccola parete di pietra per allenarmi e un piccolo bagno. Stop: il resto ve lo regalo. Ma se vieni in quella mia bottega te ne innamori. Paolo Rumiz si è buttato sulla panca e c’è stato tutta la notte. Non riusciva più ad andarsene. Luce, finestre grandi senza tende, perché voglio vedere la luna che passa. Per una tendina ho mandato in malora un matrimonio, lei mi chiudeva in una catacomba: e fammi vedere la notte! Tubi e termosifoni lungo il muro, non sotto il pavimento: che l’ha detto che sono antiestetici? Libri segnati, la bottiglia di vino, che cosa ti serve di più?

Alberi, case, legno, bosco: tutti elementi di quello che nel suo libro definisce «il mondo storto»?
Alberi ce ne sono anche troppi, ormai. La foresta ha invaso i cortili, non c’è più la cultura del bosco. Non è vero che stiamo disboscando, anzi. L’uomo è andato nelle città e con il lavoro subordinato ha rinunciato alla responsabilità insita nel lavoro della terra. Se monti male un pezzo in fabbrica è un problema del padrone, se sbagli a tagliare un albero è tuo. Il bosco è un’industria, ma se lo maltratti l’anno dopo lo paghi. E poi c’è fatica, la mucca non è una moto che parcheggi. Ma ora con la crisi le fabbriche chiudono e l’uomo deve ripensarsi. Se non hai più soldi, il cibo non puoi andare a comprarlo come prima. E allora devi pensare di produrlo. La naturalità del ritorno alla terra che ipotizzo nel libro è forse un’utopia patetica: se tutto il mondo diventasse imprenditore di terra, la società tornerebbe sana. Un mondo di contadini che si nutrono e poi hanno tempo libero per fare quello che vogliono.

Che cosa può spingere l’uomo verso la sua patetica utopia?
Dalle mie parti sono morti due coniugi che si erano persi in un bosco. Li hanno trovati abbracciati, entrambi con accendini e sigarette. Non sei capace di accendere un fuoco? Se ti perdi di notte in un bosco muori di freddo. Vieni con me che ti insegno ad accendere un fuoco strisciando due legnetti secchi, finché fa la brace e poi ci soffi sopra. Ma devi prendere i legnetti sottobosco, sui pini ci sono barbe sempre asciutte. Anche se diluvia. Poi soffi, soffi, soffi... L’uomo ha perso il contatto con la natura.

Che cosa pensa dell’Expo 2015, intitolata «nutrire il pianeta»?
Nutrire il pianeta? E di che? È già nutrito, ci dà tutto. Occorre invece educare l’uomo a nutrirsi di quello che serve, non del superfluo. Vivere in questo pianeta è come scolpire: devi togliere per vedere la scultura, mentre noi continuiamo ad aggiungere, a coprire. Così non vedi la scultura. Io mangio quando ho fame, allora mi piace tutto.

È anche la disciplina della montagna?
La montagna è selettiva: se non stai in equilibrio rotoli giù. Così nella vita. Quando ci sarà il mondo storto, andremo con i Rolex per scambiarli con un sacco di farina e ci diranno di no. A me serve il grano, non un orologio.

La montagna come sta?
Dove nevica firmato si sta bene. C’è tutto. Ma solo lì. Perché i vip vanno tutti a Cortina e nessuno viene a Erto? Perché là sei un vip, qui no. Perché nessuno scansa il luogo comune? Quando si paga, non esiste freno. Nè leggi, né piani regolatori. L’uomo è fragile e comprabile. Lo dimostro io, che pubblico i libri con Berlusconi perché mi paga il triplo.
di Giuseppe Salvaggiulo, da Il Giornale dell'Architettura numero 100, dicembre 2011




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